lunedì 23 gennaio 2012

In the mood for love

Wong Kar-Wai
Hong Kong, 2000

Il film del quale sto per parlare, e farlo risulta piuttosto complesso, ha innalzato a vero e proprio amore quella che prima era per me una forte attrazione per il cinema orientale. Prova indiretta nè è parte del nome di questo blog.
Ne è divenuto, addirittura, manifesto concettuale ed estetico, simbolo di un cinema che dialoga sottraendo azione, nel minimalismo austero ed estasiante dei dettagli sussurrati, nella magniloquenza di sentimenti che, lontani anni luce da quelli serviti nel fast food di molto cinema americano e non solo, dirompono con forza ineguagliabile nel solo essere evocati.
In the mood for love è un film di pura ambientazione mentale, generato nelle contorsioni degli stati dell'animo, cresciuto nei gesti, nei movimenti plastici di un’estetica del tutto concettuale, negli sguardi che legano i protagonisti con la forza di struggenti promesse cui già sanno di non poter adempiere. E’ un’opera che racconta di perdite e di unioni, di dolore e di conforto, di rinuncia e di abbandono, di sublimazioni e di impossibilità, nello sconcerto struggente che non può che accompagnare l’amore impossibile.
Ed il tormento diviene esso stesso fiore fragilissimo da difendere, da celare persino agli occhi dello spettatore, dietro fumo di tabacco e vetri polverosi, e alla vista del sole, rinchiuso in luoghi che sono fittizi recinti protettivi e nelle notti di una città che non offre spiragli di futuro, sospeso e cristallizzato in una virtualità che gli permette grandezza di eternità.
Wong Kar-Wai traccia le linee esili di questo capolavoro con un’inestimabile regia, ne disegna un percorso onirico fugace ed oscuro eppure nel medesimo momento eterno e luminoso, eleva il dettaglio da oggetto seriale ad essenza strutturale, leviga con cura immagine dopo immagine rinchiudendola in una fotografia sublime, scrigno impalpabile di un istante di vita senza tempo, e avvolgendola in una colonna sonora che si ripete in un incanto sensoriale. 
E regala a chi è disposto a rifuggire emozioni pret-a-porter la poesia inebriante e perfetta di un sentimento che, unicamente, vive.

Capolavoro.

giovedì 19 gennaio 2012

Melancholia

Lars Von Trier,
Danimarca/Germania/Francia/Svezia, 2011


Von Trier è uno dei registi che ha causato alla sottoscritta più discussioni e tentativi di difesa in assoluto, peraltro ben prima delle sue dichiarazioni solidali nei confronti di Hitler.
Certamente in bilico tra lo strumentale ed il genuino, ipotesi contrapposte alla base dell’odio e dell’amore per il regista, le famose regole del suo cinema, evolutesi notevolmente nel tempo, hanno confezionato a mio giudizio più di un capolavoro, categoria in cui – lo dichiaro subito – rientra a pieno diritto Melancholia.
Il cinema del danese, chiunque abbia visto un suo film lo sa bene, utilizza da sempre il realismo, esasperato nei film dogma e comunque sempre mantenuto anche dopo il superamento del decalogo, come forma estrema di racconto, dipingendo un’inquietudine umana che muta forma in insofferenza, disagio, potenza emotiva, dolore, strazio fisico, morte.
I personaggi di Von Trier non sono depositari del bene e del male, sono simulacri dell’umanità stessa e si muovono in scenari, a volte del tutto inesistenti e a volte talmente impersonali e stereotipati da esserlo comunque, che fungono da terreno metaforico per raccontare i veri protagonisti, ovvero la castrazione degli schemi sociali e la bassezza dell'ipocrisia umana davanti alla cui potenza e ferocia l’uomo non ha possibilità di vittoria.
Ne Le Onde del Destino gli schemi sociali sono superati esclusivamente grazie ad uno squilibrio mentale (che in realtà è solo difformità, regressione alla naturalezza dell’uomo), ma il superamento non è mai vera salvezza e l’uomo che tenta l’evasione dallo schema perde inevitabilmente la sua battaglia.
In film come Dogville e nel successivo Manderlay lo schema sociale, ordine precostituito nel quale la protagonista si inserisce all’improvviso, rendendo appieno il senso della struttura imposta al singolo uomo da prima della sua stessa nascita, non può essere combattuto ed il tentativo di mutarlo uccide tutti, chi concretamente nell’annullamento della vita, chi sprofondandolo nell’incapacità e nel fallimento.
In The Antichrist, altro indubbio capolavoro, lo schema precostituito è la negazione della sessualità della donna e della sua stessa natura (generalizzata nel “lei” senza nome), intrappolata a rappresentazione stessa del male, sul quale si fondano secoli di civiltà sociale e culturale, talmente schiacciante da perpetrarsi, ancora una volta, annientando prima la donna (che arde nel secolare rogo purificatore) e infine anche l’uomo.
In Melancholia l’umanità interiore è ancora una volta violentata dal conformismo ipocrita degli schemi, prigioniera della retorica dei gesti e dell’apparenza borghese ed il pianeta che distrugge la terra non è altro che metafora dell’incapacità dell’uomo di rifiutarli (perfettamente rappresentata nella depressione esasperata della protagonista che non lotta e si chiude nell’angoscia dell’impossibilità del cambiamento), rappresentando l’unica reale possibilità per annientarli, paventata da un’umanità morbosamente ancoratagli, ancora una volta in un pessimismo schiacciate in cui l’uomo non ha potenzialità salvifiche.
Il film è maestoso, impregnato di simbolismi (come sempre Von Trier fornisce una spiegazione preliminare al suo film, questa volta ben più criptica delle “cartoline” esplicative dei capitoli di Dogville, in una serie di sequenze di sublime bellezza) la cui lettura globale è ardua con una sola visione e diviene sostanzialmente impossibile se non si conosce il cinema di questo regista.
Le scene si susseguono, nei due capitoli, costellate di metafore, di accenni, di parole chiave.
La sequenza finale, in cui i tre ruoli (Justine, che attende la fine con senso di liberazione e di appagata serenità, Claire, che si è adeguata e compressa al conformismo ed è straziata dalla sua distruzione, ed il bambino, rappresentazione di un’umanità ancora libera), subiscono la catastrofe in solitudine e nel silenzio dell’intimità di una capanna di rami, è poeticamente raggelante e simbolo, ancora una volta, del male puramente interiore che il film narra.
Così, come un thriller termina con la rasserenante distensione regalata dalla morte dell’assassino, Von Trier spegne il mondo, unica vera via di liberazione dal male umano, in una serenità placida e paradossalmente dolce.

Capolavoro.

J. Edgar

Clint Eastwood
Stati Uniti d'America, 2011

Quando si approccia ad un film di un grande regista, la cui squadra tecnica è ormai una garanzia, si arriva a dare per scontato che la pellicola sarà caratterizzata da quegli ottimi aspetti che, in alcuni casi, riescono a regalare la sufficienza ad un film altrimenti mediocre.
Eastwood riesce a rendere perfettamente gli anni di cui tratta, aggiungendo alla sua ottima regia tecnica e ad una colonna sonora da lui stesso scritta per il film, una fotografia eccellente, scenografie e costumi di altissimo livello ed un cast di alta qualità, l’ottimo Di Caprio in testa.
Nonostante questo, alcuni difetti restano, primo su tutti la voce dell’Hoover anziano, platealmente invecchiata dal giovane doppiatore italiano (andrebbe verificato se questa pecca esiste anche nella versione originale), seguito da un trucco a dir poco evidente che in alcuni casi sfiora il ridicolo.
Ma la pellicola ha ben altri problemi.
Lunga più del necessario, costruisce un elenco di accadimenti sparsi in quasi cinque decenni che manca a tratti totalmente di ritmo, finendo per annacquarsi in momenti talmente deboli da provocare nello spettatore se non noia, quantomeno divagazione mentale. Il tentativo di ovviare a questo miscelando tempi e punti di vista (che si intravedono anche prima del disvelamento finale), riesce soltanto ad evitare un’altrimenti certa insofferenza.
Ma il punto realmente dolente di questo film va oltre il ritmo, per centrare il cuore dell’opera.
Esistono modi differenti di approcciare ad un film biografico: si può farlo con l’anima fredda del documentarista cui importa esclusivamente l’essenzialità vera dei fatti, si può farlo con gli occhi celebranti di un pittore davanti al suo soggetto, o, al contrario, con ambizioni di applicare una sorta di giustizia tardiva a chi l’abbia avuta risparmiata. Si può farlo, infine, cercando profondità e umanità in personaggi cui la storia ha assegnato volti tagliati con l’accetta, come quasi sempre accade.
Credo che quest’ultima sia stata la fiamma accesa nella mente del regista quando ha scelto di raccontare la vita e la personalità di J. Edgar Hoover, direttore dell’FBI per quarantotto anni e padre biologico del Bureau che oggi tutto il mondo conosce.
E gli va riconosciuto che in alcuni momenti l’obiettivo è davvero raggiunto (il grottesco ascolto della registrazione erotica che sobriamente dipinge l’ossessività dell’uomo, i dialoghi con la madre e la scena struggente e patetica in cui indossa i suoi abiti, la sua stessa morte che ingloriosamente mette a nudo un realismo fisico certamente simbolico), nella cifra stilistica umana ma distante che da sempre contraddistingue il regista. Ma questi momenti si contrappongono ad altri trattati con superficialità imperdonabile e talmente grossolana da arrivare ad apparire strumentale ad una riabilitazione sotterranea, celata dietro un’empatia impossibile tra lo spettatore ed Hoover.
Impari porre sulla stessa bilancia l’intreccio spionistico ricattatorio, le persecuzioni cui ha costretto i movimenti radicali e ancor di più il movimento per i diritti civili afroamericani di Luther King (e molto altro cui il film appena accenna), raccontati dalle poche parole di Hoover nell’assenza di scene che li rappresentino e li approfondiscano, e le immagini violente dei poliziotti uccisi e dei simboli dissacrati di una nazione che si difende dai proprio nemici.
Ecco, quindi, ancora una volta un’America che si giustifica per i propri peccati.

Prescindibile.

mercoledì 18 gennaio 2012

Midnight in Paris

Woody Allen
Stati Uniti d'America, 2011

Partiamo dall’ovvia considerazione che i gusti sono soggettivi per antonomasia e che, sebbene si possano certamente costituire dei criteri cardine attraverso cui inquadrare le opere d’arte e si possa imporli con tutta l’autorevolezza esistente, la verità è che non esiste un giudizio universale né uno meno soggettivo degli altri.
Detto questo, Woody Allen è per me fonte di quel sublime piacere leggero e frivolo con cui si attende qualcosa che si sa essere delizioso.
Il termine non è casuale e non può essere sostituito, poichè rappresenta meglio di qualunque altro ciò che riesce a confezionare questo regista americano che ha creato, notoriamente trasponendo sé stesso sullo schermo (sempre che ciò non sia fumo negli occhi), uno stile in cui riescono a confluire caratteri diversissimi che mai come in questo caso si sposano dando vita ad un timbro unico e riuscitissimo.
In Allen, infatti, si mescolano il tocco delicato e sofisticato di buona parte del cinema francese, l’ironia ed il sarcasmo eleganti del buon cinema inglese, lo svisceramento esistenziale e pittoricamente emotivo del sempre più ottimo cinema est europeo e la doverosa dose di frenesia ipocondriaca americana, certamente qui esasperata, ma mai fino a divenire dramma (potesse la nostra società imparare a soffrire degli abbandoni nell’assenza di rancore di cui è pervaso il cinema alleniano!). Confeziona il tutto un senso di raffinata armonia che si prende gioco delle umanità più fragili - ma sostanzialmente purificate dal cinismo più sincero ed indifeso – con tocchi amorevoli e paternali.
Midnight in Paris non fa eccezione e anzi splende di una luce rimpolpata rispetto agli ultimi film che l’hanno preceduto. Si colora, infatti, della poesia dei luoghi della mente e di un’ironia che riesce ad essere nel medesimo tempo dissacrante ed esaltante avvicinando a noi con semplicità ed umanità artisti che hanno fatto la storia di una civiltà.
Questo film, che trasporta i propri personaggi in tempi antichi, ha il meraviglioso potere di far vivere in noi sensazioni lontane da questo tempo, come se avvertissimo – o sperassimo – che lontano da oggi tutto fosse pervaso di quella profondità leggera e armoniosa che abbiamo purtroppo perduto per strada.

Ottimo.

Il Cigno Nero (Black Swan)

Darren Aronofsky
Stati Uniti d'America, 2010

Fatto salvo che l'oscar come migliore attrice è certamente stato assegnato più che meritatamente ad una attrice, Natalie Portman, che ha interpretato con grande bravura un ruolo molto complesso, impegnativo e pieno di sfaccettature, il film nella sua globalità mi ha delusa.
E' innegabile che la delusione spesso è dietro l’angolo quando si guarda un film dopo averne letto grandissime cose, ma credo che il mio giudizio resti piuttosto oggettivo in questo caso e che, a prescindere dalle aspettative più o meno alte, questo film mi sarebbe sembrato, come mi è sembrato, davvero poco più di un buon film.
L’indiscutibile ottima regia, che non rappresentava un’incognita,  e la perfezione estetica di alcune scene davvero notevolissime (in assoluto la trasformazione in cigno nero sopra ogni altra) confezionate in una fotografia quasi perfetta, non riescono comunque a rendere del tutto convincente la realizzazione di una trama che appare a chi scrive non del tutto riuscita.
Come spesso accade, il genere cui viene destinato il film, ovvero il thriller, risulta del tutto fuori luogo. La tensione che serpeggia nel film non è causata dall'intensità dell’intreccio della trama ma dai picchi d'atmosfera delle scene classicamente "horror", (apparizioni improvvise, colonna sonora e climax d’attesa) tutte ben fatte e caratterizzate dal giusto ritmo (che porta con naturalezza lo spettatore ad attendere i momenti adrenalinici), ma che tutto sommato lasciano il tempo che trovano.
Lo "sdoppiamento" (termine non esattamente corretto e calzante) di Nina si intuisce già dai primi minuti, per poi manifestarsi platealmente poco dopo, ma la paranoia e la follia che lo caratterizzano sono lasciate davvero troppo in superficie. L'accenno alle radici della sua distorsione mentale, infatti, è appunto solo un accenno: il rapporto con la madre che l’ha costretta alla cristallizzazione in bambina è certamente  causa del suo rifiuto di essere donna e della negazione della sua stessa sessualità, ma viene relegato a ruolo motivazionale esterno, senza che risulti confermato in una coerenza reale.
I  “momenti di sdoppiamento” di Nina non sono mai connessi ad un suo effettivo comportamento attivo, non c’è una sua volontà reale di lasciarsi andare all’incarnazione del cigno nero nella sua globalità esistenziale e simbolica; la stessa apertura verso la sessualità, verso la droga o al piacere corporeo è anche qui trattata in modo troppo superficiale e, oltre ad non essere ben caratterizzata, è del tutto indotta dall’esterno, subita senza alcun coinvolgimento interiore ed in nessun caso scaturita da una determinazione propria (la scena del rapporto sessuale in discoteca lo evidenzia perfettamente, così come il rapporto saffico non rappresentato come trasfigurazione onirica di un desiderio, divenuto ormai “morboso”, di vivere la propria sessualità – l’amica/rivale non rappresenta infatti altro che la naturalezza di tali istinti e il suo desiderio di accettare il proprio lato impuro, la cui immagine arriva a mutare nel suo stesso volto al raggiungimento dell’apice - ma come viaggio mentale causato dallo stordimento della droga che ha superficialmente e forzatamente annullato i suoi freni inibitori).
Solo se la metamorfosi in cigno nero, simbolo dell’apertura al “male”, fosse nata da un impegno di Nina, nell’impersonificarlo nella danza e nell’esistenza personale, la conseguente distorsione mentale sarebbe stata frutto coerente e profondo dei sensi di colpa causati dal contrasto con la condizione rigida di purezza infantile inculcatale dalla madre e divenuta in lei pilastro interiore, come rifiutasse il compiere (ed il successivo aver compiuto) tali comportamenti e li relegasse quindi ad un’altra persona – un’altra Nina – per liberarsene.
L’assenza di questo passaggio pesa inesorabilmente sul personaggio di Nina rendendolo a tratti vuoto di simbolismo e di profondità, e rappresenta a mio giudizio la pecca maggiore del film, causando di fatto la totale assenza sulla scena del dualismo tra due anime, reale protagonista della trama cui viene invece relegato un ruolo in sordina, e della lotta simbolica tra l’attrazione verso un male fumoso, che in realtà sarebbe solo l’accettazione di una personalità piena e comprensiva degli istinti imperfetti e carnali, e una purezza precostituita ed asettica a cui da sola si impone di non rinunciare.
Anche il finale, che non regala certamente sorprese essendo anche concettualmente inevitabile, risente di questa assenza e impedisce di fatto alla morte del cigno bianco nel balletto di coincidere con la fine della vita di Nina quale compimento ineluttabile e simbolico di una metafora esistenziale, dell’uccisione di una parte di sé incapace di accettare. Il film, invece, mostra la morte di un personaggio psicotico che si uccide in preda al delirio visivo di sopprimere colei che paranoicamente avverte come minaccia al suo ruolo di étoile e di donna, solo sommessamente rivelando – attraverso l’immagine del suo volto al posto di quello della rivale, la lotta interiore e non fisica tra le sue due anime. Resta quindi la delusione di un senso profondo che serpeggia lungo le scene di questo film senza però mai arrivare a toccare l’intensità del nucleo, senza mai affondarci le mani, senza mai possederlo vibrante, vero, intimo, duale.
Appare perciò un’opera incompiuta, nonostante i presupposti di un regista bravissimo a rendere visive le distorsioni mentali, un’attrice perfetta per il ruolo sia nelle sue capacità recitative sia nella propria apparenza fisica, una colonna sonora che rappresenta essa stessa una coesistenza tra purezza ed inquietudine, ed il mondo in cui la storia è calata, ovvero quello del balletto che è simbolico di per sé, essendo rappresentazione attraverso l’uso fisico del corpo di sentimenti e di intensità esistenziali.
Resta un buon film, ma resta anche l’amaro in bocca di vedere delle potenzialità ferme qualche gradino sotto l’espressione pura e perfetta del dualismo dell’anima, che era l’evidente obiettivo cui mirava.

Meritevole ma...