giovedì 19 gennaio 2012

J. Edgar

Clint Eastwood
Stati Uniti d'America, 2011

Quando si approccia ad un film di un grande regista, la cui squadra tecnica è ormai una garanzia, si arriva a dare per scontato che la pellicola sarà caratterizzata da quegli ottimi aspetti che, in alcuni casi, riescono a regalare la sufficienza ad un film altrimenti mediocre.
Eastwood riesce a rendere perfettamente gli anni di cui tratta, aggiungendo alla sua ottima regia tecnica e ad una colonna sonora da lui stesso scritta per il film, una fotografia eccellente, scenografie e costumi di altissimo livello ed un cast di alta qualità, l’ottimo Di Caprio in testa.
Nonostante questo, alcuni difetti restano, primo su tutti la voce dell’Hoover anziano, platealmente invecchiata dal giovane doppiatore italiano (andrebbe verificato se questa pecca esiste anche nella versione originale), seguito da un trucco a dir poco evidente che in alcuni casi sfiora il ridicolo.
Ma la pellicola ha ben altri problemi.
Lunga più del necessario, costruisce un elenco di accadimenti sparsi in quasi cinque decenni che manca a tratti totalmente di ritmo, finendo per annacquarsi in momenti talmente deboli da provocare nello spettatore se non noia, quantomeno divagazione mentale. Il tentativo di ovviare a questo miscelando tempi e punti di vista (che si intravedono anche prima del disvelamento finale), riesce soltanto ad evitare un’altrimenti certa insofferenza.
Ma il punto realmente dolente di questo film va oltre il ritmo, per centrare il cuore dell’opera.
Esistono modi differenti di approcciare ad un film biografico: si può farlo con l’anima fredda del documentarista cui importa esclusivamente l’essenzialità vera dei fatti, si può farlo con gli occhi celebranti di un pittore davanti al suo soggetto, o, al contrario, con ambizioni di applicare una sorta di giustizia tardiva a chi l’abbia avuta risparmiata. Si può farlo, infine, cercando profondità e umanità in personaggi cui la storia ha assegnato volti tagliati con l’accetta, come quasi sempre accade.
Credo che quest’ultima sia stata la fiamma accesa nella mente del regista quando ha scelto di raccontare la vita e la personalità di J. Edgar Hoover, direttore dell’FBI per quarantotto anni e padre biologico del Bureau che oggi tutto il mondo conosce.
E gli va riconosciuto che in alcuni momenti l’obiettivo è davvero raggiunto (il grottesco ascolto della registrazione erotica che sobriamente dipinge l’ossessività dell’uomo, i dialoghi con la madre e la scena struggente e patetica in cui indossa i suoi abiti, la sua stessa morte che ingloriosamente mette a nudo un realismo fisico certamente simbolico), nella cifra stilistica umana ma distante che da sempre contraddistingue il regista. Ma questi momenti si contrappongono ad altri trattati con superficialità imperdonabile e talmente grossolana da arrivare ad apparire strumentale ad una riabilitazione sotterranea, celata dietro un’empatia impossibile tra lo spettatore ed Hoover.
Impari porre sulla stessa bilancia l’intreccio spionistico ricattatorio, le persecuzioni cui ha costretto i movimenti radicali e ancor di più il movimento per i diritti civili afroamericani di Luther King (e molto altro cui il film appena accenna), raccontati dalle poche parole di Hoover nell’assenza di scene che li rappresentino e li approfondiscano, e le immagini violente dei poliziotti uccisi e dei simboli dissacrati di una nazione che si difende dai proprio nemici.
Ecco, quindi, ancora una volta un’America che si giustifica per i propri peccati.

Prescindibile.

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