giovedì 19 gennaio 2012

Melancholia

Lars Von Trier,
Danimarca/Germania/Francia/Svezia, 2011


Von Trier è uno dei registi che ha causato alla sottoscritta più discussioni e tentativi di difesa in assoluto, peraltro ben prima delle sue dichiarazioni solidali nei confronti di Hitler.
Certamente in bilico tra lo strumentale ed il genuino, ipotesi contrapposte alla base dell’odio e dell’amore per il regista, le famose regole del suo cinema, evolutesi notevolmente nel tempo, hanno confezionato a mio giudizio più di un capolavoro, categoria in cui – lo dichiaro subito – rientra a pieno diritto Melancholia.
Il cinema del danese, chiunque abbia visto un suo film lo sa bene, utilizza da sempre il realismo, esasperato nei film dogma e comunque sempre mantenuto anche dopo il superamento del decalogo, come forma estrema di racconto, dipingendo un’inquietudine umana che muta forma in insofferenza, disagio, potenza emotiva, dolore, strazio fisico, morte.
I personaggi di Von Trier non sono depositari del bene e del male, sono simulacri dell’umanità stessa e si muovono in scenari, a volte del tutto inesistenti e a volte talmente impersonali e stereotipati da esserlo comunque, che fungono da terreno metaforico per raccontare i veri protagonisti, ovvero la castrazione degli schemi sociali e la bassezza dell'ipocrisia umana davanti alla cui potenza e ferocia l’uomo non ha possibilità di vittoria.
Ne Le Onde del Destino gli schemi sociali sono superati esclusivamente grazie ad uno squilibrio mentale (che in realtà è solo difformità, regressione alla naturalezza dell’uomo), ma il superamento non è mai vera salvezza e l’uomo che tenta l’evasione dallo schema perde inevitabilmente la sua battaglia.
In film come Dogville e nel successivo Manderlay lo schema sociale, ordine precostituito nel quale la protagonista si inserisce all’improvviso, rendendo appieno il senso della struttura imposta al singolo uomo da prima della sua stessa nascita, non può essere combattuto ed il tentativo di mutarlo uccide tutti, chi concretamente nell’annullamento della vita, chi sprofondandolo nell’incapacità e nel fallimento.
In The Antichrist, altro indubbio capolavoro, lo schema precostituito è la negazione della sessualità della donna e della sua stessa natura (generalizzata nel “lei” senza nome), intrappolata a rappresentazione stessa del male, sul quale si fondano secoli di civiltà sociale e culturale, talmente schiacciante da perpetrarsi, ancora una volta, annientando prima la donna (che arde nel secolare rogo purificatore) e infine anche l’uomo.
In Melancholia l’umanità interiore è ancora una volta violentata dal conformismo ipocrita degli schemi, prigioniera della retorica dei gesti e dell’apparenza borghese ed il pianeta che distrugge la terra non è altro che metafora dell’incapacità dell’uomo di rifiutarli (perfettamente rappresentata nella depressione esasperata della protagonista che non lotta e si chiude nell’angoscia dell’impossibilità del cambiamento), rappresentando l’unica reale possibilità per annientarli, paventata da un’umanità morbosamente ancoratagli, ancora una volta in un pessimismo schiacciate in cui l’uomo non ha potenzialità salvifiche.
Il film è maestoso, impregnato di simbolismi (come sempre Von Trier fornisce una spiegazione preliminare al suo film, questa volta ben più criptica delle “cartoline” esplicative dei capitoli di Dogville, in una serie di sequenze di sublime bellezza) la cui lettura globale è ardua con una sola visione e diviene sostanzialmente impossibile se non si conosce il cinema di questo regista.
Le scene si susseguono, nei due capitoli, costellate di metafore, di accenni, di parole chiave.
La sequenza finale, in cui i tre ruoli (Justine, che attende la fine con senso di liberazione e di appagata serenità, Claire, che si è adeguata e compressa al conformismo ed è straziata dalla sua distruzione, ed il bambino, rappresentazione di un’umanità ancora libera), subiscono la catastrofe in solitudine e nel silenzio dell’intimità di una capanna di rami, è poeticamente raggelante e simbolo, ancora una volta, del male puramente interiore che il film narra.
Così, come un thriller termina con la rasserenante distensione regalata dalla morte dell’assassino, Von Trier spegne il mondo, unica vera via di liberazione dal male umano, in una serenità placida e paradossalmente dolce.

Capolavoro.

2 commenti:

  1. antichrist è tra i suoi unici a non essermi piaciuto molto. mi sembra il film meno suo, con elementi visionari in cui vorrebbe fare forse il lynch di turno...
    enormi le onde del destino, dancer in the dark e dogville.
    e melancholia è un capolavoro sì, la summa del von trier-pensiero!

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  2. A me The Antichrist è piaciuto moltissimo, invece. Mentre lo guardavo, al cinema, una sensazione di "angoscia fisica" mi ha presa e non mi ha lasciata sino dopo qualche ora dalla fine del film (e non per le scene di deturpazione).
    L'ho trovato davvero meraviglioso.

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