Olivier
Nakache, Éric Toledano
Francia, 2011
Senza dubbio il cinema francese è
capace di produrre alcuni tra i film maggiormente curati che il Vecchio Continente
riesca oggi ad offrire.
La timbrica espositiva, che
coinvolge in primo piano tempi, luce e fotografia, è sempre marcatamente nazionale,
così come la costante scelta dei volti sobriamente atipici (cui spesso
corrispondono personalità stravaganti), pur nella loro più spiccata naturalità.
Non stupisce, quindi, che anche questo lungometraggio goccioli francesità da
ogni visuale, anche nella colonna sonora italiana (composta da Ludovico Einaudi)
in cui nuota perfettamente il bon ton della pellicola.
Più di una voce ha definito
questo “Quasi Amici” - campione di incassi in patria e fuori - una piccola
perla, definizione nella quale l’aggettivo non ha affatto volontà di ridimensionare
il valore della parola che lo segue, ma che ardisce anzi ad incastonarla ancora
di più quale opera d’arte pregna di
profondità ma scevra da eccessi d’ogni tipo, come un’intensa poesia appena
sussurrata.
Alla mia attenzione, però, deve
essere sfuggita gran parte del bagliore di questo prezioso, forse distratta
dagli innumerevoli manifesti che il film in oggetto mette in bella mostra sin
dalle sue scene d’apertura, in cui peraltro la doppia regia si permette,
fortunatamente solo in queste, tocchi modaioli del tutto fuori contesto.
Le premesse e le
puntualizzazioni, infatti, si susseguono caparbiamente, accompagnando lo
spettatore per mano lungo la via del gradimento, a scanso di eventuali devianti
perplessità.
La prima e fondamentale premessa
(poi ribadita dalle immagini finali) ci spiega che ciò cui assistiamo è il
racconto di una storia realmente accaduta e questo, se si volesse credergli,
potrebbe far pensare che chi sostiene che l’esistenza umana sia, tutto sommato,
un riassunto di stereotipi e di prevedibilità in salsa vagamente speziata non
abbia poi torto.
Il film, infatti, è
millimetricamente infarcito di luoghi comuni, rudimentali specchietti per
allodole, occultati dietro fogliame d’estrosità di classe.
Un uomo ricco, colto e raffinato,
costretto all’immobilità di una paralisi non solo fisica, incontra e sceglie di
essere accudito, unitamente ad un piccolo stuolo di più appropriati aiutanti,
dalla sua antinomia: un giovane povero, disonesto ed esteriormente brutale. Il
colore della pelle aggiunge sapore ad un rapporto che, fra due bianchi, sarebbe
certamente risultato più insipido.
A motivare la scelta, banale anche raccontarlo, è il senso d’orgoglio che il paraplegico nutre per sé stesso e per la sua limitazione, che lo tiene preventivamente lontano da chiunque dimostri pietà e solidarietà umana per la sua condizione. Se lo spettatore, ipotesi estrema, non lo comprendesse da solo, non ci sarebbe comunque possibilità di smarrirsi: è lo stesso protagonista a tendere generosa la mano del chiarimento più esplicito, purtroppo non per l’ultima volta.
A motivare la scelta, banale anche raccontarlo, è il senso d’orgoglio che il paraplegico nutre per sé stesso e per la sua limitazione, che lo tiene preventivamente lontano da chiunque dimostri pietà e solidarietà umana per la sua condizione. Se lo spettatore, ipotesi estrema, non lo comprendesse da solo, non ci sarebbe comunque possibilità di smarrirsi: è lo stesso protagonista a tendere generosa la mano del chiarimento più esplicito, purtroppo non per l’ultima volta.
Vale appena la pena precisare che
il selvaggio ragazzone ha vissuto un’infanzia particolarmente difficile,
seguita da un presente ancor più borderline, che ha contribuito a sottrarre la
possibilità di svilupparsi ad un animo invece profondamente buono e genuino.
Ecco, quindi, nascere tra i due
un “imprevisto” rapporto paritario ed amicale, che cinematograficamente si
accende quasi esclusivamente nei contrasti tra le due personalità ed i due retroterra culturali messi a confronto e
ridimensionati per giungere alla sventurata, impoverita morale del film:
l’identità umana si ritrova, autentica, soltanto nel superamento delle distanze
culturali, sociali e rigidamente fisiche.
Nulla in questo film è lasciato all’autonomia
dello spettatore: ogni emozione è sapientemente cercata, imboccata, stimolata
dagli humus più scontatamente fertili tra quelli in grado di pungolare l’animo umano medio. L’evolversi del
rapporto d’amicizia si sviluppa e si esaurisce nella condivisione di garbati
gesti di frivola follia, tutti rigorosamente frutto di sconfortanti cliché, e nelle
amorevoli canzonature del reciproco universo culturale e sociale, il tutto
condito da abbondante superficialità.
“Quasi amici” rifugge con
attenzione ogni rischio ed in meno di centoventi minuti intavola una ragguardevole
serie di stereotipi stracotti in un educato potage (anche la colonna sonora -
Einaudi non si smentisce - è svenevole ed immediata al punto giusto) e
pre-mastica ogni concetto che tocca, prima di servirlo trito e velocemente
digeribile sullo schermo.
Eppure, ha l’ardire di chiedere
allo spettatore di sorridere e di commuoversi, di meravigliarsi e di
intenerirsi, nonostante in tutta la pellicola non esista una sola miccia capace
di innescare ilarità spontanea, né terreno per significative comunicazioni
concettuali e/o etiche.
A ben vedere, ciò che sconforta
maggiormente è che il gioco gli sia riuscito.
Scadente.
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