Steve McQueen
Regno Unito, 2011
“...Tell me to relax, I just stare
Maybe I don't know if I should change
Maybe I don't know if I should change
A feeling that we share
It's a shame...”
Ho visto, tardi rispetto al momento di massimo clamore che
lo ha posizionato onnipresente nei discorsi di critica e pubblico, dei salotti
bene e dei circoli Arci, il leggendario Shame. It's a shame...”
Mi piacerebbe, ad esempio, riuscire a comprendere cosa
abbiano visto i milioni di acclamanti estimatori in questa pellicola che i miei
occhi non sono stati invece in grado di cogliere.
L’entità della delusione, infatti,
è dovuta alla quantità di meraviglia profusa per mesi dai giudizi dei tanti che
hanno avuto modo di parlarne e di scriverne.
Non nego che il protagonista, il tanto in voga Michael Fassbender, abbia mostrato ottime capacità attoriali nel
rendere sullo schermo un’ossessività anestetizzata, contraddizione in termini
in realtà assolutamente coerente, ma queste non bastano a fare il film, né
tantomeno a farne un capolavoro.
Sintetizzare la trama ha certamente poca
utilità, considerando che i pochi che non hanno visto l’opera di McQueen ne
hanno certamente sentito parlare molto e da molti, eppure una sintesi, anche
stringata, in questo caso è in grado di rendere appieno il contenuto dei cento
minuti di questo Shame.
Un uomo tra i trenta ed i quarant’anni,
benestante e di bella presenza, vive un’esistenza del tutto vacua nella sua
casa, negli hotel e nelle strade di una stereotipata iperfashion New York City
– che avrà certamente appagato appieno il pubblico open mind di questo film - con
l’unico costante, asettico obiettivo del raggiungimento del piacere sessuale,
cercato nelle più svariate gradazioni di una scala che parte dal presentissimo
autoerotismo, per toccare il tradizionalismo eterosessuale sino alla
trasgressione più grottesca, passando naturalmente per webcam e virtualità.
Questo è esattamente ciò che vedrete, né più
né meno, declinato lungo tutto l’arco del film che, presumibilmente, ha voluto
operare una scarnificazione esemplare di un’esistenza in una sorta di
documentaristica rappresentazione di un uomo che, per lo più, fa sesso.
Ciò che mi attendevo da Shame e che ritenevo
fosse causa delle interminabili lodi, in realtà non viene da McQueen neanche
lambito. Nella sua creatura non c’è traccia del turbamento, della lotta e
dell’arresa, di un isolamento sofferto, di un’inadeguatezza o di
autocompatimento. Non c’è sporcizia né smarrimento, non c’è attesa né
disillusione, non c’è tentativo di riempire vuoti, né contraria volontà di
mantenerne.
La rappresentazione del perverso e del
grottesco è tutta relegata ad agenti esterni, ai luoghi fumosi e confusi dove
si consumano atti sessuali espliciti sin quasi alla pornografia, e ad una
fotografia che alterna tratti assolutamente gelidi a pennellate quasi
forzatamente torbide, senza riuscire in alcun modo a coinvolgere in un’atmosfera
che ne resta del tutto avulsa.
La trasgressione, resa proprio attraverso l’imposizione
di immagini inattese all’interno del cinema di genere, si dimostra strumentale,
e perciò sterile, e lo shock che ambisce a provocare, in realtà resta assente anche
nelle scene più ambiziosamente sfrenate, lasciando spazio persino ad un accenno
di noia.
Anche il rapporto con la sorella, che poteva
fungere da pretesto per mostrare la radice esistenziale di un presente tanto
abulico, fallisce lo scopo e si perde in percorsi secondari appena accennati, che
raccontano problematicità scoordinate e solitudini, a tratti cercate e a tratti
subite, di due incomunicabilità lasciate del tutto in superficie.
L’immagine conclusiva, che segue il
prevedibile tentato suicidio, chiude ciò che in sintesi è poco più di una
sequenza di sfondi, in un temerario finale aperto in cui la scelta del possibile
futuro è quasi del tutto relegata allo spettatore. Che Brandon continui un’esistenza
di narcosi emotiva (in cui il sesso rappresenta solo una delle possibili
ossessioni e non né è né causa né finalità) o che si affranchi dal passato
grazie al ritrovato ruolo di fratello, lo sceglie lo spettatore, assecondando
proprie inclinazioni e trasfigurazioni.
Un film che, parlando di sesso, avrebbe dovuto
parlare d’altro, resta invece, ed è questo il suo maggior limite, un film che
racconta una personale sessualità. Che sia estrema, malata e sbagliata, se da
una parte ha regalato alla pellicola il ruolo di cult, dall’altro non è certo
in grado di trasformarla in un capolavoro.
Prescindibile.